Molte delle forme di comunicazione digitale che utilizziamo sarebbero considerate comunicazioni classiche, da Internet alle chiamate sui cellulari. Le comunicazioni classiche sono costituite da stringhe di 1 e 0, ognuna delle quali contiene un “bit” di informazioni.
Scientificamente, le comunicazioni quantistiche sono diverse: sfruttando l’incertezza su scale quantistiche, possiamo lasciare che le nostre informazioni siano sia 1 che 0 contemporaneamente. Questo bit di informazione quantistica, o qubit, può essere una sovrapposizione di stati – un 1, 0 o una combinazione – finché non viene osservato, a quel punto la sua funzione d’onda collassa.
A causa della sovrapposizione, i qubit possono eseguire più di un calcolo alla volta e contenere più informazioni rispetto alle loro controparti bit classiche.
La privacy nella comunicazione non è solo bella da avere; è necessaria. Secondo l’Identity Theft Resource Center, nel 2021 ci sono state 1.862 violazioni dei dati, che hanno compromesso quasi 300 milioni di persone. Ci sono molte fonti di queste violazioni dei dati. Molti di loro si verificano quando le informazioni vengono trasferite. Qualsiasi comunicazione su Internet è vulnerabile all’intercettazione e alla visualizzazione da parte di qualcuno diverso dal destinatario previsto.
Per proteggere la privacy, i dati trasferiti attraverso i classici canali di comunicazione possono essere crittografati. Ma la forza di questa crittografia è bilanciata dall’ingegnosità dell’hacker. La comunicazione classica si basa su combinazioni di 1 e 0. Gli hacker possono guardare quegli 1 e 0, copiarli e inviarli per la loro strada, senza che nessun altro sia in grado di sapere che il messaggio è stato intercettato. Il livello di sicurezza che utilizza la comunicazione quantistica, d’altra parte, è radicato nelle leggi della fisica e potrebbe essere reso immune all’hacking utilizzando un processo chiamato QKD, o distribuzione della chiave quantistica.
L’uso di una chiave quantistica ha alcuni vantaggi rispetto alle comunicazioni classiche. La natura incerta della funzione d’onda mantiene le informazioni quantistiche al sicuro dall’intercettazione, poiché quel tipo di interferenza causerebbe il collasso della funzione d’onda dei qubit. Inoltre, non è possibile per un hacker intercettare, decrittografare e ritrasmettere il segnale e ciò accade perché uno stato quantistico sconosciuto non può essere copiato.
Oggi, i sistemi di crittografia moderna si basano sulla “ipotesi di complessità”, ossia sulla difficoltà di calcolo che si rileva per determinare le complesse funzioni matematiche alla base delle chiavi, ma non fornisce alcuna indicazione su un evento di intercettazione in un punto del flusso di comunicazione. Ci si affida dunque al fatto che lo sforzo per trovare le chiavi di accesso sia così rilevante da non riuscire a essere gestito. Realisticamente ogni sistema può essere preda di hacker e uno schema crittografico può essere annullato facendo un elevatissimo numero di operazioni casuali, sino a trovare una chiave che sblocca le informazioni codificate, in due numeri primari. Si tratta di una operazione estremamente complessa per cui sono necessarie grandi potenze di calcolo e matematici intelligenti, due cose che non mancano ad esempio ai governi. Gli stessi governi che, nella continua ricerca di mezzi di trasmissione i più sicuri possibile, privilegiano quando possono le reti satellitari.
A tal proposito, si attribuisce un grande valore strategico all’esperimento di trasmissione satellitare con crittografia quantistica, effettuato dai ricercatori dell’Università di Scienza e Tecnologia di Shanghai, che nel 2017 hanno inviato particelle quantiche dal satellite Mozi, lanciato orientativamente un anno prima, verso stazioni di terra distanti tra loro 1200 chilometri. Facendo un passo indietro, si osserva che la meccanica quantistica fu introdotta nel 1900 da Max Planck, per fornire una spiegazione circa lo spettro del “corpo nero”, cioè un oggetto in grado di assorbire tutta la radiazione che incideva su questo. Successivamente Albert Einstein in seguito ottenne il Nobel dimostrando l’effetto fotoelettrico, ossia l’emissione di elettroni da un metallo illuminato: si rinvenne che non solo la materia non era continua, data la sua natura atomica, ma anche la luce lo era.
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